Oggi andiamo incontro, forse per la prima volta nella storia, ai savonesi e raccontiamo una loro specialità… o meglio, una loro usanza con un nostro prodotto, ma non scendiamo nel dettaglio se no qua parte una guerra senza precedenti…


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Mi avete inviato un po’ di persone il racconto di Luciano, scritto nel gruppo local di Loano… quindi eccovi la storia di un tipico quotidianissimo panino con le fette, raccontato da Luciano Sanna!


LIGURITUDINE

Mi trovo a Savona per impegni marittimi, e come ogni volta nel nostro capoluogo, appena sono libero e voglio spizzicare qualcosa i miei passi mi portano sempre nello stesso posto; è come se avessi dentro una bussola inconsapevole, un radar che mi comanda e mi porta in quel vicoletto del centro storico senza che io ne sia perfettamente cosciente.
Imbocco il vicolo trasversale a Via Pia e vedo le sedie fuori, il segno di riconoscimento della bottega aperta. Non so neanche se abbia un’insegna o un nome; se non lo si conoscesse sarebbe completamente anonimo.
Metto la mascherina e mi presento all’entrata.
La vedo subito, è di spalle e sta trafficando nel lavabo di quel bugigattolo di pochi metri quadri.
La vecchia signora è un mistero per me, e credo per altri. Quel ceppo famigliare gestisce la vendita di panizza nello stesso locale da circa tre secoli (300 anni… trecento!!) e pur tramandandosela da generazioni c’è sempre una signora vecchia, mai visto qualcuno giovane ed io ci vado da almeno 45 anni, da quando studiavo a Savona, e sempre una vecchia ci ho trovato.
Faccio un finto colpo di tosse per segnalare la mia presenza, e la signora, senza alzare lo sguardo da cosa sta sciacquando nel lavabo, fa uscire un “Dica”, una sola parola e basta.
– Un panetto con le fette di panizza, grazie signora.
– Sci, aua. (“si, adesso” detto con un poco di scazzo, di chi viene interrotto nel fare un lavoro)
Gonnellone pieno di macchie, ciabattoni, grembiule multicolor, maniche tirate su, niente guanti o cuffia o cappellino o altro, la signora sta lavando a mano dei filetti di baccalà dentro un catino, quelli per fare le frittelle di baccalà.
Chiude l’acqua, si gira senza neppure guardarmi, si asciuga le mani bagnate nel grembiule, nello scaffale alza un canovaccio pieno di buchi e prende un panetto di pane bianco molto morbido, che apre in due a mano.
Mentre vedo queste operazioni guardo il locale, ed ovviamente è perfettamente uguale a quando ci entrai in prima superiore a quindici anni, non è cambiato nulla.
Un locale che secondo le disposizioni HACCP sarebbe da sigillare stagno e riempire con un’autobotte di candeggina tenendocela a “marinare” almeno un mese.
Nel panetto aperto mette le fette di panizza fritte, questa volta usando delle pinze da cucina, l’unica diversità che credo sia avvenuta da quando ero studente.
E poi arriva il momento clou, il punto culminante.
Mi guarda per la prima volta e dice:
Ti u voe u sà? (lo vuoi il sale?)
Non è una semplice domanda, è un test.



Lei è ferma tenendo in una mano il panetto, nell’altra la saliera, lo sguardo a palpebre basse tipo Stallone che mi fissano aspettando la mia risposta, capelli corti grigi pieni di olio di frittura che vaga nell’aria in modo staticamente perenne, la bocca semiaperta che ha appena fatto l’unica domanda che serviva, nessun accenno di sorriso, o gentilezza o galanteria commerciale.
Questa donna ha dato un calcio in culo a tutto TripAdvisor e le sue recensioni di super lodi e gne gne gne, ad ogni geolocalizzazione di chi cerca locali col telefonino in mano, a tutte le regole di cortesia tanto richieste dai turisti che vengono in Liguria, ad ogni allergia o intolleranza o capriccio alimentare modaiolo, e già immagino le reazioni schifate di quelle turiste del nord “gastronomic chic” che senti chiedere se la frutta abbia la “buccia edibile” o se nella focaccia ci sia lo strutto.
Non c’è Google o Maps o recensioni che la possano interessare, la sua filosofia, autentica ligure e vera al 100% è semplice: “se vuoi è così, altrimenti fai della strada e camminare”.
Mi ha parlato in dialetto, ed io rispondo con:



Sci, ma nu tantu sa’, che me tucca beive troppi gotti (si, ma non tanto sale, che mi tocca bere troppi bicchieri).
Ah, ti sé de a Riviera. (Ah, sei della Riviera)
Eccolo il test; dicendo due parole mi ha identificato subito. Non sono di Savona e loro, i savonesi, chiamano Riviera quella parte di Liguria turistica che non fa parte del loro status di operai-cittadini-marittimi che hanno una vita diversa da noi rivieraschi, ritenuti frivoli e farfalloni. Difatti in Riviera quei panetti con la panizza non esistono, troppo popolari.
Sci, auà me ne vaggu a Loa. Quant’ù l’è? (Si, adesso vado a Loano, Quant’è?)
Dui e vinti. (Due e venti)
Mea, son giusti. Salìu scignua. (Guardi, son giusti. Saluto, signora)
Bungiurnu. (Buongiorno)
E bon, dialogo finito. Il minimo necessario. Nessun grazie o sorriso o altro salamelecco da nessuna delle due parti.
“Io faccio la panissa e il baccalà, lo friggo e se vuoi lo compri, altrimenti passi lunghi e ben distesi”. Altro che torta di riso.
Appena fuori mando una foto del panino alla mia compagna, giovane ligure, e non riconosce cosa sia. Mia figlia neanche ne sa l’esistenza. Ne parlo a Loano con la mia amica Marina che serve le brioche nella pasticceria più centrale di Loano e lo ritiene il panino migliore del mondo.
Io lo mangio da circa 45 anni, non mi sono ancora stufato, ed anch’io lo ritengo il migliore del mondo.