La lingua Ligure si avvia verso l’estinzione. Non sarà un processo veloce e percepibile. Al contrario sarà graduale e, al momento (a quanto pare), inevitabile. Sono nato e cresciuto insieme a due genitori che fra di loro non hanno mai fatto uno scambio di parole in italiano. Mai. Sempre e solo in dialetto. Una grande scuola. Indubbiamente.
Ma che cosa ho imparato realmente?
1.LA CAPISCO?
Sicuramente, ascoltandola, ho imparato a capirla alla perfezione. Difficilmente mi imbatto in frasi che contengono al loro interno parole sconosciute. Certo, dipende dalla zona, a volte ci possono essere dei dubbi, ma nel complesso la comprensione è ottima.
2.LA PARLO?
Qui il discorso è più delicato e nasconde al suo interno la vera ragione (o comunque una delle più importanti) che sta portando il ligure all’estinzione. Sarei in grado di parlarlo? Sì, ma con delle riserve. L’ascolto di una lingua fin dai primi anni di vita è la base per decollare e iniziare a parlarla. Ma non sarei in grado di tenere un discorso con la fluidità e la capacità di adattamento al contesto che invece
avrebbero i miei genitori. È la capacità di padroneggiare la lingua stessa. Ed è solo la pratica, costante nel tempo, che può portare a importanti risultati.
Ma allora perché in questi anni ho parlato così poche volte o Zeneise?
Dipende dal contesto. Ho semplicemente avuto (ma va detto anche che io stesso mi sono creato…) poche occasioni per parlarlo. Sin da piccolo i miei genitori si sono rivolti a me sempre e solo in italiano. E lo fanno ancora oggi, pur sapendo che, molto probabilmente, sarei in grado di rispondere ad una loro domanda in genovese.
Ecco una delle chiavi di lettura dell”estinzione”. Io posso capirlo alla perfezione, ascoltandolo. Ma con il passare del tempo e non parlandolo mai, inevitabilmente, lo perderò.
La pratica orale è sicuramente il modo più efficace per custodire e tramandare una lingua.
A volte capire una lingua non è sinonimo di padroneggiarla (anzi, spesso è quasi vero il contrario). Perché magari ci sentiamo un po’ goffi ed impacciati. E quindi uno dice, “ma perché devo lanciarmi con una domanda/risposta in genovese quando posso evitare la figuraccia e andare sul sicuro con l’italiano?” Errore (che faccio anche io), perché a seconda del contesto si può “osare il dialetto“. (Che poi di dialetto non si può parlare, siccome il Genovese è una lingua vera e propria…)
Si deve osare il dialetto se si vuole conservarlo.
E poi ancora, avete notato anche voi la capacità comunicativa (ovviamente in ligure) dei giovani dell’entroterra, rispetto ai giovani rivieraschi? Certo ci saranno molte eccezioni, ma tendenzialmente i primi capiscono e lo parlano fluentemente, magari quotidianamente. I secondi, nella maggior parte dei casi, si limitano ad un’ottima capacità di comprensione accompagnata da una scarsa pratica/capacità nel parlato. Anche la geografia, quindi, incide. Bastano davvero pochissimi chilometri e stiamo già raccontando un’altra storia.
Ecco perché, secondo me, le vere roccaforti del Genovese sono ben rappresentate dai piccoli paesini dell’entroterra ligure. Custodi di una cultura che viene praticata quotidianamente e che quindi tramanda in modo efficace la lingua scongiurandone la sua immediata estinzione.
3.LA SO SCRIVERE?
Assolutamente no. Non sono capace di scrivere in modo corretto il ligure. Ecco un’altra grossa limitazione. Puoi capirlo alla perfezione, puoi saperlo anche parlare un pochino ma se non lo sai scrivere, sei solo a metà dell’opera. Ma questo stupisce già meno, anche perché oggi molti giovani hanno proprio perso la capacità di scrivere correttamente l’italiano stesso. Se in più ci aggiungiamo che la “lettura” non è di certo uno degli hobbies più praticati dalle nuove generazioni, ecco che tutto torna, proprio perché (anche) leggendo si può imparare a scrivere.
4.LA SO LEGGERE?
Non benissimo, anche perché la lettura di un testo in Ligure presuppone il riconoscimento al volo delle parole che ci troviamo di fronte e che dovremo pronunciare. Quante volte leggendo una frase ci siamo bloccati pensando “ma che vuol dire quella parola?“. Poi magari qualcuno ci ha letto la pronuncia di quella stessa parola e abbiamo pensato: “ah belin, ma si scrive così? Non lo sapevo“. E qui mi parte un attimo il momento “bei ricordi”, come quella volta che il compianto Francesco Gallo (“Le Coq”), memoria storica di Loano, mi insegnò a scrivere “Loano” in Zeneise nel modo corretto (“Lèua”).
Infine, consapevole dell’importanza che il dialetto ligure (guai chiamarlo così!) ricopre per la storia del nostro territorio, sarebbe bello vedere sempre più spesso iniziative locali capaci di diffondere questa cultura tra i giovani, partendo dal nome di un piatto sino ad arrivare ad una vera e propria storia/notizia raccontata con la lingua che ci appartiene e che nasconde tra le sue parole tradizioni, usi e ricordi di un tempo passato che però, di fatto, non passa mai. Non solo per una questione nostalgica, ma molto probabilmente perché per il nostro futuro sentiamo ancora il bisogno dei buoni esempi del passato.
E voi, come siete messi con il Genovese? 🙂
I primi a “frenarmi” quando da bambino piccolo provavo a parlare in ligure, coi genitori o coi nonni, erano proprio nonni e genitori… A me, bambino di 3 o 4 anni, venivano concessi tutti gli strafalcioni possibili quando parlavo in italiano, ma non quando parlavo in genovese. Il tutto era poi condito da una discreta dose di “ipercorrettismo”, perché i miei nonni parlavano un genovese “campagnolo”, ma se ero io ad esprimermi in “lingua locale”, allora paégia e paégua non si potevano usare e bisognava dire pègia e pègua come nel genovese urbano. E poco importa se poi i nonni a loro volta dicevano paégia e paégua… non bisognava dirlo perché era da “tanardi”…
Alla lunga questo atteggiamento diventava dissuasivo: quando nonni, zii e prozie anziane parlavano con me in genovese io rispondevo rigorosamente in italiano, perché (più o meno inconsciamente) sapevo che potevo sbagliare senza che nessuno mi correggesse… poi tanto a correggere il mio italiano ci ha pensato la maestra in prima elementare.
Per quanto riguarda la mia padronanza del genovese:
1) spesso penso in genovese e volendo lo riesco (ancora) a parlare con naturalezza.
2) lo leggo correntemente e facilmente anche quando viene scritto usando grafie diverse (es. Casaccia o Académia ligùstica do brénno).
3) in teoria saprei anche scriverlo, anche se con qualche difficoltà con l’accento grave/acuto, perché la pronuncia della variante che conosco io (entroterra di Voltri) non coincide completamente con quella urbana.
Ma in sostanza ho un rapporto conflittuale con il genovese e quindi non lo utilizzo mai, per precisa scelta, perché per le ragioni esposte nel post precedente mi è diventato antipatico.
Parlo fluentemente la Lingua Ligure (la definirei, oggi, cosi’ e non “genovese” visto che la nostra porzione di Ponente si trova a ben 140/170 km da Genova e , nonostante il lungo passato con alti e bassi nell’orbita delle Repubblica di Genova, ed al confine con il Piemonte, non tutti gradiscono l’appellativo usato ad es.dai brigaschi per definirci: “genués” oppure “figùn”
La parlo, in una una delle sue varianti ponentine, avendola imparata direttamente dove la si praticava, sul campo, ed in particolare dai nonni, al paese, in valle.. I genitori hanno sempre parlato esclusivamente italiano. Trovo difficoltà nel trasmettere ai figli un linguaggio che, come ogni altra lingua d’uso comune, va pensata oltreché parlata……non mi pare ci sia piu’ luogo a procedere, purtroppo. Ed è un sacrilegio vero e proprio lasciar svanire nel nulla secoli di sonorità, cocine e terminologia per la comunicazione quotidiana, uniche ed irripetibili.
La nostra variante,peraltro condivide parte della propria sostanza non tanto con il genovese odierno (che capiamo alquanto bene) quanto piuttosto con il genovese di secoli fa’ , a partire da quello dell’Anonimo Genovese (abbiamo conservato il “zo” – “zu” fino agli anni 70) , altri paesi conservano l’articolo det. “ru-ra” con la conseg. prepos. “dru dra e- ru, ra. Esempio : piazza della Chiesa a Bajardo (IM) suonera’ “Ciàzza Ra Giéxa”.
E’ stato divertente. Bona dau punènte.